Alesina e Giavazzi contro l’Articolo 18

Nel mio continuo e mai giunto a termine processo di formazione, ricordo con piacere il libro dei due economisti Alberto Alesina e Francesco GiavazziIl liberismo è di Sinistra“.

Ben prima dell’acuirsi della crisi finanziaria, grazie all’interessante ed argomentata opera dei due, ero giunto alla conclusione che il liberismo non è di sinistra e che negli anni a venire il pensiero della gauche europea debba essere sempre più critico rispetto a queste posizioni.

Nell’ultimo periodo hanno preso a cuore la questione della riforma del mercato del lavoro e ad intervalli regolari espongono sui principali quotidiani le motivazioni della loro battaglia contro l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, i cui toni danno anche l’idea di quanto sia ideologica la sfida.

E’ di domenica 22 gennaio sul Corriere della Sera l’ultimo accorato e stentoreo appello:

“Per abbattere questo muro c’è una sola via: eliminare l’articolo 18. Sbaglia chi ripete che non è una battaglia che valga la pena di combattere. È una battaglia fondamentale.”

Parto da qua. Non ho un atteggiamento predeterminato ed irremovibile, ma mi sfuggono le ragioni per cui il mettere mano a una riforma del mercato del lavoro in questi termini possa di per sé essere un elemento che stimoli la crescita economica del Paese.

L’architrave è quella di sempre: è necessario intervenire su questo fronte per sanare le inaccettabili disuguaglianze tra padri e figli e tra chi è ipertutelato e chi non lo è. Questo atteggiamento caritatevole verso le fasce giovanili è il messaggio forte ma inflazionato che da mesi rimbalza tra giornali e TV. Caritatevole perché tende a far credere che sia possibile estendere delle limitate tutele – la carità, appunto – alle nuove generazioni, assolutamente precarizzate, solo limitando i diritti di altre.

Peccato che numi di tale spessore si fermino alla disparità esistenti tra padri e figli (divisi magari da 200 euro di differenza in termini salariali) mentre non concentrino le loro forze contro le crescenti disuguaglianze tra la fascia più ricca e quella povera della popolazione: il 10% più ricco della popolazione in Italia guadagna 10 volte di più del 10% più povero (è un numero incredibile se consideriamo cosa significhi il 10% della popolazione! – fonte OCSE 2012).

Mi pare cioè che si alimenti, anche stimolando sentimenti quali l’invidia, una sorta di contrapposizione che riguarda in buona parte le fasce meno abbienti della popolazione italiana, puntando ad un riequilibramento di chi sta in basso, risparmiando (spesso agevolando) chi ha di più. Si parla di chi peraltro non ha molte possibilità di evadere le tasse e difficilmente si cimenta con le varie opportunità di ulteriori guadagni offerte dalla finanza. Sebbene sia da dimostrare che la contrapposizione tra tutelati e non tutelati si basi su una reale competizioni di interessi (genitori e figli sono sulla stessa barca, ad esempio), è vero che delle differenze esistono. E’ vero che sono fastidiose. Ma è certamente discutibile che il tutto si risolva con formule che prevedano l’arretramento degli uni per un ipotetico adeguamento degli altri: il “mal comune mezzo gaudio” non ha mai giovato a nessuno.

Alesina e Giavazzi riprendono la tesi secondo la quale l’articolo 18 sia un freno all’espansione aziendale (da cui una loro ridotta competitività a livello internazionale):

“Si obietta che oggi, nel mezzo di una recessione, eliminare l’articolo 18 significherebbe consentire alle imprese licenziamenti indiscriminati. È vero il contrario. In un momento di grande incertezza, come quello che stiamo attraversando, gli imprenditori sono restii ad assumere con l’inflessibilità dell’articolo 18 proprio perché sono insicuri sul futuro della loro azienda. Quindi è proprio in un momento difficile che l’articolo 18 preoccupa gli imprenditori. Quando tutto va bene e si è ottimisti, assumere per la vita è facile per tutti. (…) E, se occupati in imprese con più di quindici dipendenti (ecco un altro fattore di iniquità), protetti anche dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che ne sancisce l’illicenziabilità per motivi economici.”

Nell’affrontare questi aspetti, un bagno di umiltà è necessario: non essendo né un giuslavorista né un esperto di economia, non sono certo nelle condizioni di mettermi saccentemente a criticare le posizioni di esperti. Mi limito comunque ad esporre alcune mie perplessità.

L’Istat dice che le aziende italiane prevedono in media 4 dipendenti: se il collo di bottiglia limitante l’espansione fossero i 15 dipendenti, non sarebbe stato lecito attendersi dimensioni medie più vicine a tale soglia?

Inoltre, perchè i due economisti sostengono che l’articolo 18 rende di fatto illicenziabili i lavoratori per motivi economici? Non è del tutto vero, anche perchè con la legge 223 del 1991, sono stati permessi i licenziamenti collettivi tramite l’istituto della mobilità, strumento utilizzato in tale quantità tanto da dover introdurre forme di casse integrazione in deroga.

Stefano Fassina, responsabile economico del PD, ha accennato a 400/500mila lavoratori tutelati dall’articolo 18 che recentemente hanno perso il posto di lavoro, segno che probabilmente il sistema è già piuttosto flessibile anche in uscita. Questo è quanto viene confermato anche dall’OCSE, secondo cui l’Italia è tra i Paesi più flessibili al mondo. Certo, si tratta di un dato complessivo che non discerne quanto è chiesto alle nuove generazioni e quanto è stato caricato sulle spalle di quelle più anziane. Ma è comunque un dato in controtendenza rispetto a chi pensa che l’eliminazione di lacci e lacciuoli nel mondo del lavoro sia la via maestra per rilanciare l’economia.

C’è un’altra grande perplessità che nutro. Metà dei garantiti dall’art. 18 sono dipendenti pubblici. Le inefficienze del pubblico (sia nel merito della qualità dei servizi erogati sia in termini di numero di addetti per erogare quel servizio) sono note a tutti.

Ma c’è qualcuno convinto che modificando il diritto del lavoro in questo modo aumenterà la mobilità nella pubblica amministrazione? E i dipendenti della PA saranno veramente sullo stesso piano di chi lavora in aziende private? Io proprio non ci credo. Il settore pubblico ha altre logiche: intanto è meno esposto alla crisi e alla concorrenza. E non mi pare che i livelli dirigenziali intermedi siano stimolati a rendere “la macchina” più funzionale, magari colpendo i nullafacenti (per usare un termine caro ad Ichino).

Eppure mi piacerebbero ambiziose politiche per l’efficientamento della pubblica amministrazione. Qualcosa di più elaborato dei tornelli di Brunetta

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