C’è grande curiosità rispetto al nome di Fabrizio Barca.
Figlio del partigiano e dirigente comunista Luciano, entra nel governo Monti come ministro della coesione territoriale pur dichiarando di votare per SEL. Recentemente ha aderito al PD, presentandosi alla platea democratica con un impegnativo documento di 55 pagine “Un Partito Nuovo per un Buon Governo” che decide di esporre in giro per l’Italia.
Si tratta di un testo complesso, distribuito nei fatidici giorni dello scorso aprile che hanno visto le bocciature di Marini e Prodi e la rielezione – piena di presagi – di Napolitano a Presidente della Repubblica (fatto che Barca criticò, dichiarando al contempo la sua preferenza per Rodotà o Bonino).
Dato che si vociferava da tempo di un impegno diretto dell’ex ministro, anche come candidato alla guida del PD, il taglio di quello scritto colpì molti e scatenò una ridda di commenti ironici (e ingenerosi) rispetto alla popolarità di un linguaggio così accademico: alcuni non si sono ancora ripresi dall’aver incontrato il termine “catoblepismo” dopo poche righe e, in fatto di percentuale di lettori che ne hanno portato a termine la lettura, non siamo lontani dall’Ulisse di Joyce.
Ci si aspettava forse un documento diverso, anche con riferimenti più diretti rispetto alla fase politica attuale. In fatto di contestualità, mi ha fatto venire in mente De André che nel ’68 ha scritto il bellissimo “La Buona Novella”, un disco incentrato sulla figura di Gesù e della Madonna.
Scherzi a parte, ho letto il documento e l’ho trovato affascinante.
Innanzitutto ho gradito lo sforzo di Barca di presentarsi con un contributo che andasse al di là della promozione della sua persona attraverso il solito libro autobiografico in cui si racconta delle esperienze di scoutismo o della diffusione di qualche slogan ad effetto, ma che affrontasse in maniera seria ed originaria la questione della forma partito. Rispetto alle battutine di cui sopra, le ho valutate come la manifestazione di una certa inerzia mentale, ossia dell’incapacità di prendersi qualche volta sul serio – la politica è questione serissima – riconoscendo che non tutto è comunicazione ma che c’è un livello in cui sarebbe opportuno confrontarsi sulle questioni, chiarendo quali sono gli obiettivi comuni dell’impegno politico e definendone di conseguenza la linea.
Il “comunicare bene” è fondamentale, ma viene dopo. Discende. Prima bisogna avere qualcosa da dire. Arricchirsi.
Secondo merito di Barca è l’aver deciso di affrontare un tour per l’Italia con la finalità di discutere – ed integrare – tale “esercizio di scrittura“. Direttamente nei circoli, direttamente con i militanti. Senza porsi l’assillo delle scadenze (si è tirato fuori dalla contesa per il Congresso).
Da quando c’è il PD, è il primo a fare un’operazione del genere. Non sottovaluto questo aspetto.
Sapendo del passaggio del catoblepa da Milano (dal circolo di via Albertinelli, per dare merito al merito…) non ho resistito dall’andare ad ascoltarlo.
Durante la serata, benché impostata con Barca che interveniva a seguito di domande ed interventi del pubblico, l’ex ministro si è ritagliato uno spazio per delineare il suo pensiero.
Partendo da un’osservazione: nel passato ci sono stati grandi partiti e spesso benché non fossero al governo, come nel caso del PCI, sono comunque riusciti a realizzare parte della loro “visione del mondo“. Oggi, di fronte a un quadro politico per certi aspetti più semplice – si chiedeva Barca – “un partito delle dimensioni del PD cosa è riuscito a realizzare? Nulla.” Secondo Barca, il problema è uno: la questione culturale.
“La sinistra – dice il catoblepa – è stata egemonizzata da un pensiero a lei alieno. E la dimostrazione è nel fatto che si pensa che il sapere sia di pochi. E’ assurdo! Poteva valere negli anni ’60 ma oggi i livelli di istruzione si sono elevati, tanti sono competenti, non esistono solo pochi “saggi”. Eppure il problema della politica oggi è dare più poteri al primo ministro, scegliere “Cesare”, restringere e velocizzare. Le riforme in questi anni sono state fatte nella torre con i risultati che vediamo, e ci si è adattati all’idea che “riformare” sia equivalente a “normare” e che “governare” significhi attuare delle ricette, in maniera rigida. I partiti, come dice Pasquino, sono diventati “docili strumenti nelle mani degli eletti”. Non può essere così“.
Stupendo la platea, Barca ha affermato che secondo lui la TAV in Italia non si farà mai: “Non si può fare un’infrastruttura senza che questa sia condivisa dai territori. Infrastrutture di questo tipo non si definiscono nel chiuso di una stanza“.
E partendo proprio dalla discussa opera ha spiegato le basi del suo sperimentalismo democratico che cercherò brevemente di illustrare di seguito.
L’80% di una decisione (ad esempio la realizzazione di un’infrastruttura) andrebbe decisa durante la sua realizzazione. Chi avvia un’opera dovrebbe essere ignorante, nel senso che dovrebbe avere il compito di assumere una decisione forte ma poi queste dovrebbero essere incomplete proprio perché sulla base di uno scambio continuo tra il centro e il locale si costruiscano reti di apprendimento nel monitoraggio che portino al completamento dell’opera. Lo scambio alimenterebbe il “coagulo delle conoscenze“, dato che come premesso, non sono solo pochi a sapere ma si trovano competenze ad ogni livello.
Sapendo che Barca è laureato in scienze statistiche, viene il dubbio che questo concetto della previsione, costruzione anche attraverso l’analisi e il monitoraggio, sia stato influenzato dalle tecniche di statistica cosiddette di machine learning, alla base dell’intelligenza artificiale (penso alle reti neurali che si applicano anche alla biologia).
Ritornando all’apprendimento, ha anche aggiunto che “lavorando si capisce cosa non funziona. A Pompei siamo intervenuti sulla gestione dei fondi comunitari. Il problema non era legato a fenomeni di corruzione, concussione etc. Ma abbiamo dovuti collaborare per impostare cronoprogrammi, addirittura per scrivere i bandi“
Necessariamente, lo scambio tra livelli, deve essere alimentato dal conflitto tra le parti (anche in ambito sociale) e la gestione del conflitto è la chiave per arrivare in fondo.
Lo strumento per questa interazione tra società/locale e Stato/centro è il partito politico, che Barca nel famoso documento descrive come un’entità altra dallo stato, anzi sempre in competizione, “sfidante dello Stato stesso attraverso l’elaborazione e la rivendicazione di soluzioni per l’azione pubblica“.
Da qui la sua critica feroce al modello attuale del Partito statocentrico del documento:
La copiosità del finanziamento pubblico dei partiti, mirando a liberare i partiti stessi dal condizionamento dei “fondi neri” provenienti dalla degenerata conduzione dei grandi enti pubblici nazionali o locali, li ha in realtà legati stabilmente allo Stato, sancendo e accrescendo la loro non-dipendenza dal contributo degli iscritti, il cui controllo sul partito si è così viepiù ridotto. Ad aggravare le cose sta il fatto che questi finanziamenti essendo commisurati agli esiti elettorali, sono anche formalmente connessi agli eletti. Ciò consolida il “controllo” dei gruppi parlamentari, attraverso filiere di comando che da singoli “capi-cordata” nei gruppi scendono lungo il partito stesso e sono alimentate dai flussi di risorse disponibili. Questa relazione perversa è stata facilitata da un ordinamento che rafforza l’indipendenza dei gruppi parlamentari – ossia degli eletti – dagli organi direttivi dei partiti (…)
e ancora:
Il partito nuovo sarà rigorosamente separato dallo Stato, sia in termini finanziari, riducendo ancora il finanziamento pubblico e soprattutto cambiandone e rendendone trasparente metodo di raccolta e impiego, sia prevedendo l’assoluta separazione fra funzionari e quadri del partito ed eletti o nominati in organi di governo, sia organizzandosi in modo da attrarre il contributo di lavoro (volontario o remunerato) di persone di buona volontà per periodi limitati di tempo, sia stabilendo regole severe per scongiurare ogni influenza del partito sulle nomine di qualsivoglia pubblico ente. Sono queste le condizioni affinché il partito sia di effettivo sprone per lo Stato, chiunque lo governi, e affinché iscritti e simpatizzanti nonché dirigenti locali da quelli scelti, abbiano l’incentivo a impegnarsi nella mobilitazione cognitiva e tornino a essere determinanti per la selezione della dirigenza nazionale.
Poi per Barca è stato il turno di rispondere alle domande sull’attualità, partendo dalla non-vittoria alle elezioni.
Pur clemente (forse troppo) con Bersani (“Bersani non convincente perché onesto e l’onestà ha un’immagine deprimente“), Barca ammette che se molti italiani hanno votato e continuano a votare per Berlusconi, devono avere le loro ragioni. Alla base della politica di questi anni c’è la ferma volontà di non cambiare nulla ma la speranza dell’elettorato di ricevere aiuti particolari. E in questo Berlusconi è stato autentico interprete. Ma da questo fenomeno, secondo l’ex ministro, nasce anche la disaffezione alla politica. Barca la spiega dicendo: “Non è un caso che il primo ad odiare la politica sia l’aiutato. Lo è perché è stato mortificato con l’aiuto.” Effetto.
Secondo il Catoblepa, è mancato da parte del PD un segnale di cambiamento radicale. E a dispetto della figura di Bersani, il partito ha qualche problema morale: “ad esempio il PD calabrese è degenerato ed è in mano ai capibastone“
Oltre ad esprimere grossi dubbi sulla proposta di legge sul finanziamento dei partiti e dicendosi fermamente contrario a modifiche in senso semipresidenziale della Costituzione (“Abbiamo dei germi come in Germania di una qualche malattia recente e pensiamo al semipresidenzialismo… non esiste!“) curiosamente Barca ha detto che non crede che il prossimo – ed invocato – congresso del PD sarà lo spartiacque in grado di dare una linea al partito.
Aggiungendo di voler dare un contributo culturale e dicendosi pronto a sostenere chi tra i candidati abbia idee compatibili sul partito (anche se si è capito che la sua preferenza andrà a uno tra Civati e Cuperlo) si è detto convinto che serviranno anni per dare finalmente un senso al Partito Democratico.
Mai scontato, anche descrivendo l’esperienza del Governo Monti (di cui ha fatto parte):
“quel governo aveva un problema di fondo. I miei colleghi ministri erano tutte personalità di altissimo profilo, ma a quel governo mancava la politica. Fu un’operazione necessaria, l’Italia stava veramente saltando in aria e dall’estero erano preoccupati – la banca centrale era preoccupata – perché Berlusconi era vistosamente uscito di senno. Ma quel governo, come ho detto anche mentre ero ministro, ha vissuto 5-6 mesi di troppo: aveva perso la spinta propulsiva e fu un errore del PD e di Bersani non tirare il freno a fine estate. Egoisticamente a me quei mesi in più hanno fatto comodo perché ho potuto proseguire il mio lavoro per L’Aquila e il Sulcis”.
Prima di chiudere, ha raccontato l’applicazione dello Sperimentalismo Democratico a L’Aquila, dove “ogni euro speso è stato rendicontato e dove i cittadini hanno potuto toccare con mano come sono stati spesi i pochi soldi a disposizione, anche grazie ad assemblee in piazza, una delle quali organizzata con Il Fatto Quotidiano che lo stimolava”.
Infine ha chiuso spiegando le ragioni della sua iscrizione al PD benché in precedenza avesse votato SEL:
“Innanzitutto devo ammettere che ho trovato il Partito Democratico migliore di quanto pensassi. Me ne sono accorto in giro per l’Italia, nel Sulcis. Ho avuto a che fare con tanti sindaci e amministratori locali del PD veramente preparati. A parte i “cadaveri selezionati”, è nel PD il fiore delle energie del Paese. In particolare mi sono trovato in sintonia con i nativi del PD, chi per età anagrafica hanno meno pregiudizi e nefaste strutture mentali di molti anziani. A differenza di SEL, il PD è organizzato territorialmente: da qui si può costruire un partito e io voglio collaborare a ricostruire la sinistra in Italia.”
Poco più di una cronaca della serata.
Aggiungo qualche considerazione a margine.
Innanzitutto non si può che salutare con piacere l’iscrizione di Barca al PD. Sarà sicuramente uno dei protagonisti dei prossimi anni. Probabilmente le strategie che lo riguardavano sono cambiate in corsa, per via di come sono andate le cose: se si fossero vinte le elezioni sarebbe stato un papabile segretario (magari dopo la convergenza di PD e SEL in un unico partito) oppure, più probabilmente, alla guida di un importante dicastero economico.
Così però non è stato e oggi la situazione è terribilmente diversa.
Barca sta sondando il PD. Ecumenicamente, forse troppo, con i leaders, fino al “io e Renzi siamo compatibili” di qualche settimana fa, chissà quanto sincero.
E con la base, girando l’Italia presentandosi-presentando il documento (gioco di parole voluto, ovviamente) e partecipando a diversi talk show, come la bella discussione sul Partito Democratico con Veltroni di qualche giorno fa trasmessa da La7.
Resta un oggetto misterioso. Si capisce che è in corsa, ma non è alla partenza e anzi pare quasi allontanare la sfida. Anche in questo è l’anti-Renzi (altro che complementari): il sindaco di Firenze è in perenne lotta contro il tempo, colpevole di affamare la sua brama di potere. Barca è più riflessivo, sa di avere un gap di notorietà da scontare, si sta facendo conoscere. Deve prepararsi per una sfida nel prossimo futuro. Non sappiamo ancora quale.
Si rivolge evidentemente alla parte del PD che guarda verso sinistra e richiama direttamente Bersani, rispetto al quale ci sono delle analogie (un uomo che viene da sinistra e con un importante esperienza di governo). Preparato e con un netto profilo di innovatore, rispetto all’ex segretario appare più ricco nell’esposizione (non si avvale delle celebri immagini retoriche) e con prese di posizione più nette, seppur espresse con garbo, come quando nel corso della serata ha dichiarato che per lui l’intervento militare italiano nella ex-Jugoslavia rappresenta una pesante eredità recente del centrosinistra italiano.
Pur essendo figlio di un noto dirigenti del PCI degli anni ’70, non è certo “uomo d’apparato”: nel PD non rappresenta nessuna corrente e non è supportato, pare assurdo, da pezzi eminenti della struttura. Probabilmente qualcuno lo guarda con interesse, altri cominciano a temerlo. Per il momento però è uno che gira l’Italia e va nei circoli senza codazzi al seguito. Forse è una debolezza attualmente, ma può essere una forza in futuro. Brutalmente, di certo non rappresenta il “vecchio”.
Ha di certo il merito, per primo nel PD, di proporsi unitamente a un’operazione culturale che, per quanto i contorni sembrino sfumati, è quantomai cocente. Ai più sfugge forse l’importanza della forma partito rispetto alla necessità di avere un posto di lavoro (ci mancherebbe) ma chi fa politica conosce la necessità di partiti funzionanti e popolari (in quanto rappresentanti delle istanze di ampie fette della popolazione), soprattutto a sinistra. Che però, va da sé, non potranno più essere organizzati come nel dopoguerra in Italia, a partire dalla questione economica e delle risorse a disposizione. E in questo senso il documento di Barca si pone come spunto brillante.
Certo, sentendo parlare il catoblepa emerge il peso “teorico” della sua elaborazione. La prima domanda che ci si può porre, partendo proprio dalla TAV per farla semplice, è “impiegando lo strumentalismo democratico si sarebbe costruita la TAV?”. Quali sono i meccanismi che permettono in un Paese atomizzato in tante piccole autonomie come l’Italia di prendere decisioni impiegando meccanismi di maggiore partecipazione? Non si rischia la paralisi? Avremo tempo per approfondire…
Intanto mentre all’orizzonte si profila lo scontro tutto democristiano Letta – Renzi per la futura premiership, continuiamo a seguirlo. Chissà mai che…